Quando il boss Vincenzo Lubrano e l’imprenditore Nicola Arnone (Acqua Lete) se la ridevano alla faccia dello Stato nella villa bunker di Pignataro Maggiore.

L’imprenditore della riccamente super-pubblicizzata acqua minerale “Lete”, Nicola Arnone, deve aver maturato la convinzione che i giornalisti, in generale – eccezion fatta per qualche “scassacazzo” -, siano nel complesso una categoria di bravi ragazzi, ragionevoli mestieranti, appecoronati e incensanti cantori delle lodi del potente di turno, gente che non sa stare con la schiena dritta. E forse qualche ragione ce l’ha, “don” Nicola Arnone, se si limita a leggere solo quegli articoli che lo riguardano, più o meno tutti all’insegna della glorificazione delle sue capacità imprenditoriali, del suo successo, del suo acume, del suo padreternismo in terra, tra Casoria (NA) e Pratella (CE). Ma un giorno del 2003 Nicola Arnone entrò in una casa di Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta, dove sentì parlare di un giornalista talmente irriducibile che qualcuno (il padrone di quella abitazione in Contrada Taverna) si era già posto, in precedenza, il seguente dilemma: “A questo giornalista o lo faccio cacciare dal giornale dove scrive o lo ammazzo e mi prendo l’ergastolo”.

La casa di Pignataro Maggiore dove entrò il 14 agosto 2003 Nicola Arnone non è lubrano_ligato.JPGuna dimora qualsiasi, ma la villa bunker del potente e sanguinario boss mafioso “don” Vincenzo Lubrano (morto il 4 settembre 2007), in una città tristemente nota come la “Svizzera dei clan”. E a questo punto i nostri (pochi) lettori si chiederanno che cosa sia andato a fare il famoso imprenditore Nicola Arnone (ora, con la “Lete”, sponsor della squadra di calcio del Napoli) nella villa bunker di un boss come Vincenzo Lubrano, imparentato con i Nuvoletta di Marano di Napoli, alleato di ferro dei “corleonesi” di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò, condannato all’ergastolo (appunto con Pippo Calò) per l’omicidio del fratello del giudice Ferdinando Imposimato, Franco. Ci viene in soccorso, al fine di esaudire tale impellente curiosità, la Benemerita Arma dei carabinieri, in particolare gli investigatori del Comando provinciale di Caserta, che quel 14 agosto 2003, invece di stare sulla spiaggia ad ascoltare “sapore di sale, sapore di mare”, avevano i loro orecchi incollati alla postazione che stava captando i colloqui in corso nel bunker di Vincenzo Lubrano, dove erano stati piazzati dei microfoni nell’ambito di un’inchiesta dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Ecco il racconto di quelle intercettazioni ambientali attorno al trono mafioso di “don” Vincenzo Lubrano, che “Pignataro Maggiore News” sintetizza in esclusiva.
Nicola Arnone entra in scena, come si è detto il 14 agosto 2003, a partire dalle ore 16,34. Complessivamente le conversazioni di quel giorno sono tre e, annotano i carabinieri del Comando provinciale di Caserta, “Vincenzo Lubrano riceve la visita di tale ‘compare Nicola’, che si identifica in Nicola Arnone”. A casa Lubrano vengono intercettate le parole – oltre che di Vincenzo Lubrano e Nicola Arnone – di Eva Lubrano (seconda moglie del capobastone), Vincenza Lubrano e Gaetano Lubrano (rispettivamente sorella e figlio del mammasantissima) e Pasqualina Penna, quest’ultima moglie pignatarese del pericoloso camorrista detenuto Michele Lettieri, originario di San Felice a Cancello e poi orbitante nell’ambito della cosca di Pignataro Maggiore. Le prime parole – che per noi e i nostri lettori sarebbero state anch’esse molto interessanti, da un punto di vista sociologico e “culturale” – riguardano argomenti che i carabinieri ritengono, ai fini investigativi, “non utili” e, quindi, non le riportano nel loro verbale; apprendiamo, però, che Vincenzo Lubrano saluta Nicola Arnone chiamandolo per nome, segno di una antica e stretta familiarità. Nella conversazione immediatamente successiva, “don” Vincenzo e “don” Nicola disquisiscono sulla scarcerazione per motivi di salute del capomafia, che afferma di essere riuscito a farsi rimettere in libertà facendo una sceneggiata, beffando lo Stato, non assumendo le medicine che gli avevano prescritto. Quindi prendono il caffè. Nicola Arnone è amorevolmente preoccupato per il suo compare (povera creatura, “don” Vincenzo) e gli dice: “Prendetevene poco di caffè”. Allora Lubrano spiega al suo interlocutore che ormai il caffè non gli fa più niente, visto che in carcere ne ingurgitava tantissimo al fine di trarre in inganno i medici sul proprio stato di salute. “Don Nico’ – racconta “don” Vincenzo – mi sono fottuto non so quante macchinette di caffè e le medicine, aumma, aumma, non me le prendevo, prendevo solo caffè e sigarette”. Nicola Arnone (sempre più premuroso): “Perciò dico evitate qualche eccitante compare Vincenzo. Adesso dovete recuperare”. Lubrano: “E senza mangiare. Quando andai a misurare, anima della Madonna”. Arnone: “Schizzava a mille”. Lubrano: “Faceva lui: ‘E’ possibile?’. pignataro_4_copy_1_copy_1_copy_1.jpgDissi: ‘Dottore, che c’è? Che è successo’. ‘No, forse è la macchinetta che non va’. Dissi: ‘Sono io che non sto bene, dottore. Quale macchinetta’. Io me ne accorgo’”. Arnone dà man forte e imita quelle che pensa essere state le parole del boss: “Io non mi sento bene”. Collaborava, al piano di Vincenzo Lubrano, il camorrista Michele Lettieri, che si era fatto trasferire nella stessa cella del boss: “Io dicevo vicino a quello: ‘Miche’, fai sempre il caffè, Miche’ non mi far mancare il caffè’. Il ragazzo prendeva la macchinetta: ‘Don Vince’, prendete’. Si è sposato una di Pignataro, un ragazzo che mi conosce”. Nicola Arnone ribatte: “E beh, figuriamoci!”. Come fa Vincenzo Lubrano a non conoscere il camorrista di Pignataro Maggiore, se è in ottimi rapporti addirittura con imprenditori del calibro di Nicola Arnone? Lo stesso Arnone racconta un episodio accaduto allo zio Ciro, non meglio precisato, relativo ad una vicenda giudiziaria, per poi lasciare ancora la parola alla sceneggiata di Lubrano (“E che teatro”, scherza il boss pluriomicida): “La medicina, voglio la medicina, la medicina mia, però, non quella che mi date voi che non vale niente (…). Che vi credete che il cuore aspetta? Il diabete aspetta a voi? Io ho il sangue doppio e quella non circola nel cuore. E che bordello”. Nicola Arnone si fa prendere dall’entusiasmo e plaude al compare Vincenzo: “Quello poi, se non sei ‘scetato’, come vai avanti?”. Lubrano così prosegue il “bordello”: “Un’altra notte, era verso mezzanotte, dissi: ‘Adesso li devo far correre tutti quanti qua’. Mi misi nel letto ‘Ah, ah, ah, mi fa male il cuore, mi fa male il petto’, perché il cuore non fa male. Che dolore, mamma del Carmine (…). Comanda’, comanda’, correte, io adesso muoio, vedete di fare presto. Li feci andare al manicomio. Il dolore qua, il dolore dietro (…). Li feci cacare sotto a quanti ce n’erano”. Arnone: “Elettrocardiogramma, quello e quello…”. Lubrano: “In testa a me facevo, scrivete, scrivete sempre”. Compare Vincenzo e compare Nicola, come annotano i carabinieri, “ridono entrambi”. Il capomafia e il lodatissimo imprenditore della “Lete” ridono alla faccia dello Stato, del grande impegno e dei sacrifici di carabinieri, polizia e magistratura per assicurare Vincenzo Lubrano e tutti gli efferati criminali come lui alla giustizia. Nicola Arnone (tra una risata e l’altra), soddisfattissimo della sceneggiata del suo compare “don” Vincenzo: “E che dobbiamo fare”.
Ma torniamo ai giornalisti. E lasciamo la parola ad un’altra annotazione dei carabinieri, che non riportano per intero le frasi perché evidentemente non contengono nulla di penalmente rilevante ai fini delle indagini all’epoca in corso. Si parla del giornalista irriducibile, Enzo Palmesano, ex collaboratore del quotidiano locale “Corriere di Caserta”: “Successivamente – verbalizzano i carabinieri – entrano nell’abitazione un uomo e una donna non identificati. L’uomo conversa con Lubrano e con Nicola (Arnone) circa gli articoli del giornalista Palmesano (che usa lo pseudonimo di Maria Cavaliere), dicendo che finché questi scriverà sul giornale, lui non lo acquisterà. Lubrano risponde che lui ha denunciato il giornalista quattro volte e che gli vuole togliere anche la casa. In seguito Nicola (Arnone) va via e poco dopo anche l’uomo e la donna non identificati”.  
Essendo, questo, un articolo dedicato ai rapporti tra il mafioso Vincenzo Lubrano e l’imprenditore Nicola Arnone, non riportiamo le intercettazioni ambientali (stavolta penalmente rilevanti, e che i nostri lettori già conoscono) relative alle manovre del boss per far cacciare il giornalista professionista Enzo Palmesano dal “Corriere di Caserta”, facendo così calare il silenzio sugli affari, i delitti e le collusioni tra politica e camorra nella “Svizzera dei clan”. Basti solo dire che Lubrano accomunava il nome di Palmesano a quello di Giancarlo Siani, il giornalista “abusivo” (cioè precario) del “Mattino” assassinato il 23 settembre 1985 a Napoli per ordine della cosca Nuvoletta-Lubrano. “C’era pure un altro giornalista, Giancarlo Siani che scassava ’o cazzo – disse in un’occasione Vincenzo Lubrano, intercettato dai carabinieri nell’ambito dell’‘Operazione caleno’ del 23 febbraio 2009, inchiesta dei valorosi pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Napoli dott. Giovanni Conzo e dott.ssa Liana Esposito -, e quelli di Marano l’ammazzarono e si presero gli ergastoli. Ma io mi posso prendere l’ergastolo per quest’uomo di merda (Enzo Palmesano)?”. La storia di Giancarlo Siani, Vincenzo Lubrano la conosceva bene, per questioni delinquenziali e anche – diciamo così – per motivi familiari, nel senso sia di famiglia anagrafica che di “famiglia” mafiosa. Vincenzo Lubrano, infatti, era il consuocero del defunto boss di Marano di Napoli, Lorenzo Nuvoletta: il figlio Raffaele Lubrano, detto Lello, ucciso in un agguato il 14 novembre 2002, aveva sposato la figlia di “don” Lorenzo, Rosa Nuvoletta. E al summit nel quale fu deciso di uccidere Giancarlo Siani, svoltosi a Marano, aveva partecipato pure Gaetano Lubrano (fratello di “don” Vincenzo), nel frattempo anch’egli defunto, marito di una cugina dei fratelli Angelo, Lorenzo e Ciro Nuvoletta, Giuseppina Orlando, e conosciuto come l’autorevole “consigliere” della cosca punto di riferimento della mafia siciliana in Campania. 
Per la caccia all’uomo del clan Lubrano-Ligato ai danni di Palmesano finirono sotto conzo.jpginchiesta Vincenzo Lubrano e un suo nipote acquisito, Francesco Cascella (genero della citata Vincenza Lubrano, sorella del capomafia), un militare di carriera attivo anche nel mondo del giornalismo. Essendo nel frattempo morto Vincenzo Lubrano, è attualmente sotto processo il solo Francesco Cascella (al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, seconda sezione penale, collegio C, presidente la dott.ssa Maria Francica), imputato di violenza privata con l’aggravante camorristica. Nel corso del dibattimento, in una udienza intensa e drammatica, il collaboratore di giustizia Giuseppe Pettrone, rispondendo alle domande del pubblico ministero, dott. Giovanni Conzo, ha detto tra l’altro: “L’ordine dei boss del clan Lubrano-Ligato era perentorio: fare il vuoto intorno ad Enzo Palmesano, colpendo anche i suoi familiari. Il boss Pietro Ligato, con il padre Raffaele Ligato, odiava il giornalista e aveva deciso di ucciderlo”.
In questo incredibile e inquietante contesto – mentre si discute di come mettere a tacere Enzo Palmesano o, certamente ad insaputa dell’imprenditore della “Lete”, di uccidere il giornalista – Arnone (appellato affettuosamente “compare Nicola”, o “don Nicola”) fa visita al boss Vincenzo Lubrano. Adesso abbiamo potuto accedere alle intercettazioni ambientali che dimostrano, documentalmente, tali frequentazioni; ma a Pignataro Maggiore sono da sempre ritenuti scontati gli strettissimi rapporti tra la famiglia Arnone e la famiglia Lubrano.
Le intercettazioni ambientali registrano, inoltre, le visite a Vincenzo Lubrano da parte di un collaboratore di Nicola Arnone, quest’ultimo nato a Casoria nel 1955 e domiciliato a Pratella, dove c’è lo stabilimento in cui viene imbottigliata la “Lete”, a cura  della “Società generale acque minerali srl”. Il collaboratore in questione è Michele Iavarone, nato a Casoria nel 1962, che ufficialmente alle date delle intercettazioni svolge le funzioni di autista di Nicola Arnone; ma dalla autorevolezza con la quale si muove e si esprime, Iavarone deve essere qualcosa di più di un semplice autista. Nella conversazione del 22 febbraio 2003, Vincenzo Lubrano chiede a Michele Iavarone di portargli delle bottiglie di acqua “Lete”, come quelle già avute in passato. Non prima di essersi salutati affettuosamente. Lubrano: “Compare Michele, come state? Come sta il compare Nicola (Arnone)”. Iavarone: “Sta sempre impegnato”.  Vincenzo Lubrano parla a Michele Iavarone dell’arresto, con l’accusa di omicidio, del proprio figlio Giuseppe Lubrano e del nipote Pietro Ligato, e poi tutti e due i compari si scagliano contro i collaboratori di giustizia. Lubrano: “Gli fecero il guanto di paraffina quando successe la situazione”. Iavarone: “Ah”. Lubrano: “E dice che uscì tutto buono, invece adesso hanno detto che ci stanno tracce di spari sopra la mano, sia a Peppino sia a Pierino. Quelli il pentito se li è cantati (…). Credono al pentito, credono al pentito”. Iavarone: “Io non la vedo normale (…). Tu vedi a me a casa mia, perché quello dice che c’è Michele insieme a Lubrano perché ha fatto qualcosa. Ma tu mi hai visto? Hai fatto? No. Non ho capito”. Lubrano: “Ma Miche’, quello è lui che è una chiavica. Ormai lo sta mettendo in culo a tutti quanti”. Iavarone: “Adesso, stamattina, mi sono fermato a quel bar ai Quattro Venti, ho visto che si è cantato pure a certi…”. Lubrano: “Ormai abbiamo passato un guaio. Quel cornuto canta, canta perché sta al sicuro. Che dobbiamo fare?”. Riferimento al collaboratore di giustizia Antonio Abbate, figlio di Teresa Lubrano (sorella di “don” Vincenzo) e di Raffaele Abbate, quest’ultimo assassinato per una vendetta trasversale, nel Parco Fucile, a Pignataro Maggiore, il 26 gennaio 2000.  Iavarone: “Certo che ha inguaiato mezzo mondo”. Poi, i due comparielli rimpiangono quella che evidentemente considerano l’età dell’oro. Lubrano: “No, la malavita è finita. Prima c’era il rispetto, c’era tutto, ma quale malavita più adesso. Partono e sparano senza sapere dove vanno”. Iavarone: “Partono per partire, ma poi non sanno se ritornano o se vanno avanti”. Bisogna operare come si faceva ai “bei tempi”. Lubrano: “Le cose si devono studiare a tavolino, per bene, sistemate, che dopo vengono male, vi vengono male”. Iavarone: “Sempre si parte dal principio che parte bene (…). Il risultato è buono. Se uno parte già che arriva dopo, si mette dentro”. È incomprensibile, ma tra loro devono intendersi bene, ovviamente. E per quanto riguarda la salute (agguati permettendo, diciamo noi, visto il campo di attività di Vincenzo Lubrano), “c’è sempre Padre Pio – assicura Iavarone – che ci pensa lui”.
A Michele Iavarone piace frequentare posti pericolosi, non solo la villa bunker di ligato__pietro.jpgVincenzo Lubrano. Nella intercettazione ambientale del 30 aprile 2003, Iavarone, infatti, racconta a Lubrano di una visita ad un’altra villa bunker, quella del boss Raffaele Ligato in via del Conte, sempre a Pignataro Maggiore. Michele Iavarone riferisce al capomafia di essere andato a fare gli auguri a Pietro Ligato, figlio di Raffaele Ligato e di Maria Giuseppa Lubrano, sorella di “don” Vincenzo. E aggiunge che a Natale 2002 – presente Michele Iavarone – Pietro Ligato sparò alcuni colpi di pistola all’indirizzo di un’autovettura. Iavarone: “Passò una macchina là, saltò lui, gli sparò addosso e se ne scappò. Vidi la pistola, gli dissi:’Pieri’, metti che adesso c’erano le guardie, dove scappavi?”. Lubrano a proposito del nipote Pietro Ligato: “È pazzoide. Adesso si è immischiato in mezzo ad una situazione di certa gente che non mi piace. Va a finire che qualche giorno di questi abbiamo la notizia che l’hanno ucciso. Speriamo di no.  Non mi vuole sentire. Che devo fare?”. Iavarone: “Ma gente buona, gente che…”. Lubrano: “No, gente che vanno facendo ’e botteghelle”. Iavarone: “Ah, questo no (…). Se devi fare cose grosse, poche e buone”. Lubrano, a proposito delle estorsioni: “Però gli dissi:’Pieri’, stai attento e non mi toccare gli amici miei, guardami bene negli occhi, non mi toccare l’amicizia mia. Va’ cacando il cazzo a tutti quanti e non lo cacare a me, perché se no dopo non andiamo più bene”. Alla fine dell’incontro, sia Vincenzo Lubrano sia la moglie Eva chiedono a Michele Iavarone di portare i loro saluti a “don Nicola”, cioè all’imprenditore Nicola Arnone.
Molto interessante l’intercettazione ambientale del 16 maggio 2003, quando Vincenzo Lubrano e Michele Iavarone parlano della carriera e delle “qualità” del capo dei capi del “clan dei casalesi”, Francesco Schiavone detto “Sandokan”. Lubrano: “Sandokan era il ragazzo di Bardellino, il ragazzino che lo mandava a prendere le sigarette”. Iavarone: “Le sigarette. Poi ha fatto carriera, tutto in mano a lui (…). Però parlando con qualche amico, mi ha detto che non è infame questo ragazzo”: Lubrano: “No, infame non è. Però si fa rivoltare dalla gente”. Iavarone: “Sembra strano. Perché un amico mio andò a ballare in una discoteca, si presero un Mercedes nuovo fuori alla discoteca e gli cercarono 25 milioni. Lui, siani.jpgstesso un amico di Casale, non so chi è questo amico suo, disse ‘adesso chiamiamo il compariello del compare, vediamo se possiamo fare qualcosa’; dopo due ore fuori alla discoteca senza cacciare una lira gli hanno fatto trovare la macchina là fuori”. Da autovettura ad autovettura, il discorso arriva a quella di Vincenzo Lubrano. Iavarone: “Compare Vicie’, ce l’avete ancora l’Alfetta blindata? (…). Io sapevo che quando uno ha una macchina blindata cioè deve dire perché cammina con la macchina blindata sotto”. Lubrano: “E voglio camminare con la macchina blindata. Che è?”. Poi Michele Iavarone racconta di aver conosciuto Pasquale Scotti, nato a Casoria nel 1958, elemento di vertice della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Anche Pasquale Scotti utilizzava un’autovettura blindata; e i microfoni fatti piazzare a casa Lubrano dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli captano le seguenti parole di Michele Iavarone: “Io avevo Pasquale Scotti a Casoria là. Stava lui e un amico, tutti quanti che parlavano, lo bloccavano sempre, lo bloccavano sempre, infatti gli mettemmo una bomba sotto la macchina gli mettemmo, la macchina era nuova e allora lui si prese un’altra macchina e nessuno gli disse niente più, i carabinieri di Casoria…”.
Prima di salutarsi, Vincenzo Lubrano dice a Michele Iavarone che, nel caso avesse ottenuto “quella” notizia positiva, glielo avrebbe fatto sapere telefonicamente. Ma di questa telefonata, se veramente c’è stata, non possiamo riferire nulla ai nostri lettori perché non siamo in possesso del relativo verbale di intercettazione. Interessante segnalare un dettaglio che dimostra come Nicola Arnone e l’autista Michele Iavarone abbiano rapporti talmente intensi che qualche componente della famiglia Lubrano pensa addirittura – sbagliando – che siano parenti stretti, con lo stesso cognome. All’inizio della citata intercettazione ambientale del 30 aprile 2003, la moglie di Gaetano Lubrano, Angela Valente, nuora di Vincenzo Lubrano, sente suonare al citofono e riferisce: “È Michele Arnone”. E Vincenzo Lubrano: “Ah, Michele Arnone”. In realtà a bussare al citofono della villa bunker è, come si è visto, Michele Iavarone, autista di Nicola Arnone.
Le citazioni dell’acqua Lete scorrono a fiumi nelle indagini che riguardano la cosca Lubrano-Ligato. Il 16 dicembre 2006, il boss Raffaele Ligato (uno degli assassini di Franco Imposimato), cognato di Vincenzo Lubrano, riceve nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la visita della moglie Maria Giuseppa Lubrano, della figlia Felicetta e del figlio Pietro Ligato, quest’ultimo ora anch’egli detenuto a regime di 41 bis. Gli investigatori del Gico (Gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata) della Guardia di Finanza verbalizzano che i familiari “riferiscono al padre che hanno in mente un progetto per esportare l’acqua Lete in America e in Germania”. Ed effettivamente, come accertato dal Gico, la società “TTL di Pietro Ligato e C. sas” esercitava, all’epoca della citata intercettazione ambientale in carcere, “l’attività di trasporto merci su strada per conto terzi con propri mezzi effettuando viaggi nel Nord Italia (Regione Veneto)” tra l’altro a beneficio della “Società generale delle acque minerali” (Lete). Intercettazioni, pedinamenti. Come si legge nel verbale della Guardia di Finanza, “il Gico, in data 18 novembre 2005, a seguito di un servizio di appostamento e pedinamento, constatava che uno degli automezzi utilizzati dalla ‘TTL di Ligato Pietro e C. sas’ riportante sul telone la scritta Lete, dopo essere uscito dal casello autostradale di Caserta Nord, terminava il suo tragitto in un’area recintata in località Casagiove-Recale”.
Va aggiunto che, secondo una nostra fonte fiduciaria rivelatasi sempre attendibile, ma sulla cui seguente rivelazione non abbiamo potuto acquisire una conferma “esterna” ad essa (come sempre facciamo, prima di dare per certa una notizia), avrebbe avuto rapporti di frequentazioni in Pratella, con ambienti dello stabilimento Lete e quindi con Nicola Arnone, anche il boss Antonio Abbate, attuale collaboratore di giustizia (un altro degli assassini di Franco Imposimato). Infine, secondo un’altra nostra fonte, sarebbero stati assunti dallo stabilimento Lete di Pratella alcuni pignataresi su raccomandazione dei Lubrano, forse anche parenti della potente famiglia mafiosa. E tra questi raccomandati vi sarebbe qualcuno di cui sono note le “qualità” di storico fiancheggiatore-prestanome della “famiglia” Lubrano. Ma pure per la questione delle presunte assunzioni non siamo in grado di fornire ulteriori elementi. Chissà se ne sanno qualcosa di più i valorosi magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli grazie ad altre, eventuali intercettazioni telefoniche e ambientali come quelle in cui avevano captato l’imprenditore Nicola Arnone che se la rideva alla faccia dello Stato, degli investigatori e dei giudici, con il suo compare Vincenzo Lubrano nella famigerata villa bunker di Pignataro Maggiore.
Si potrebbe concludere in tanti modi, questo lungo articolo. Ma ci sembra lecito chiedere se, a causa della grande potenza degli investimenti pubblicitari dell’azienda di Nicola Arnone, ciò non si ripercuota in qualche maniera sulla libertà di stampa. Vorremmo sapere se i giornalisti che cantano le lodi di Nicola Arnone non sentano anche il bisogno, contestualmente, di tacere – di certo per eccesso di zelo e senza alcun intervento e, anzi, all’insaputa del potente imprenditore della Lete – sugli affari di certi amici dello stesso “don” Nicola Arnone come, ad esempio, il boss mafioso Vincenzo Lubrano, i suoi familiari e i suoi compari. Nel dubbio, consigliamo ai nostri colleghi più giovani, nel caso volessero intraprendere la cattiva strada del giornalismo con la schiena dritta, di essere prudenti: scrivete tanti articoli per elogiare l’imprenditore Nicola Arnone, ma non scrivete neanche una riga di critica sull’imprenditoria mafiosa alla Lubrano (come dire, alla “corleonese”). Insomma, volendo usare le stesse parole del defunto “don” Vincenzo Lubrano: “Guagliu’, nun scassate ’o cazzo”.

Rosa Parchi

Quando il boss Vincenzo Lubrano e l’imprenditore Nicola Arnone (Acqua Lete) se la ridevano alla faccia dello Stato nella villa bunker di Pignataro Maggiore.ultima modifica: 2012-01-04T17:17:00+01:00da davidema2
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